I greci definivano quattro tipi di amore che una persona può provare per un’altra: Eros, Storge, Agape, e infine il tipo di amore che unisce gli amici, “Philia”. Apparentemente può sembrare che uno degli ultimi capolavori del regista britannico-irlandese; Martin McDonagh: “Gli spiriti dell’isola”, sia basato su questo sentimento, ma l’opera va ben oltre il rapporto di amicizia, che emerge nell’intero arco narrativo. Il film indaga e fa riflettere sull’esigenza della vita, sull’esistenza, sulla noia e sulla genesi del conflitto. McDonagh, regista, che si è contraddistinto da tempo con opere quali “Tre manifesti a Ebbing, Missouri “ e “In Bruges”, ci regala, con quest’ultimo lavoro, un acuta riflessione sugli archetipi umani, che vanno ben oltre al dramma esistenziale. Un film pieno di metafore, che attraversano la scena come in opera di Samuel Beckett, dove il non-sense delle azioni trasformano il grottesco in tragedia. Il film mette in scena le sofferenze legate a un’amicizia infranta per raccontare altro, e cioè la guerra, come quella attuale dell’Ucraina, quella fatta di uomini che avevano combattuto dalla stessa parte ora si stavano combattendo l’un l’altro, uccidendosi senza troppi convenevoli. Il perfetto esempio di un gioco, a tratti pirandelliano, dove alla fine comunque vada perdono tutti. Il film nasce un ventennio fa come parte ultima di una trilogia teatrale scritta dal regista (la Trilogia delle Isole Aran) che comprendevano “The Cripple of Inishmaan” e “The Lieutenant of Inishmore” raccontando immaginari e folklore irlandese. Ben lontano dal cinema che il regista avrebbe poi conosciuto nel 2008 con il suo primo film. Siamo sull’isola di Inisherin (immaginaria, non esiste nonostante il nome significa «isola irlandese»), nel 1923, durante la guerra civile in Irlanda con l’IRA, un minuscolo pezzo di terra al largo della costa occidentale dell’Irlanda. Pádraic Súilleabháin è un mansueto allevatore che rimane sconvolto quando scopre che il suo migliore amico, l’inquieto Colm Doherty ha deciso, all’improvviso, di non volerne più sapere di lui. Questa decisione porta Pádraic, ad un esistenza di confusione e devastazione, (nonostante Colm è irremovibile) tenta goffamente di ricucire un rapporto intorno al quale gira praticamente tutta la sua vita. L’uomo dichiara granitico – ma poco convinto – che il suo antico sodale non gli ha fatto nulla di male, ma non gli piace più, al punto da volerlo completamente tagliar fuori dalla propria vita. Colm, riflette sulla sua esistenza, ed è il momento di dedicare la propria vita a un fine nobile: comporre musica che gli sopravviva e lasci un segno nella storia. Siobhan, sorella di Pádraic, tenta invano la rappacificazione, senza esito, così come anche Dominic, ragazzo semplice e dalla vita difficile. Il tutto sotto l’ombra cupa della megera del villaggio, (da cui prende spunto il titolo originale del film, le Inishmann, luoghi di streghe e spiriti nelle leggende popolari irlandesi). Mentre nella piccola comunità si propaga il caos per una situazione totalmente inaspettata e inedita, Colm decide di minacciare Pádraic con uno scioccante ultimatum: se continuerà a infastidirlo o proverà anche solo a parlargli, sarà costretto a compiere un atto scellerato e irreparabile. Candidato agli oscar con 9 nomination, l’opera è magistralmente collocata in un meraviglioso paesaggio irlandese, interpretato da uno straordinario Colin Farrell (vincitore della coppa Volpi a Venezia) da Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan ed è attualmente in programmazione nelle sale Cinematografiche, Consiglio di vedere l’opera in lingua originale, sottotitolato, questa volta il doppiaggio non gli da il giusto merito.








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